Biografia

Antonio Triacca Nato a Seregno nel 1951, da sempre amante dell'arte, nel 1967 si iscrive all'Istituto statale d'arte di Monza che ha visto nomi importanti del design, della grafica e delle arti figurative. Come Negri, A.G. Fronzoni e Michele Provinciali; architetti come Antonio Rossin e Piero Ranzani; maestri di tipografia e arti grafiche come R. Barboro, modellisti come C. Ogier, storici dell'arte come Zeno Birolli (figlio del fondatore di Corrente), scultori come Carlo Ramous e Pino Spagnulo (alcune loro sculture sono installate anche in diversi luoghi di Milano, per ultimo l'ingresso della nuova Scala alla Bicocca); fotografi come Ennio Vicario e Roberto Maderna; pittori come Giorgio Carpintieri; ricercatori come Narciso Silvestrini, scrittori come Giuseppe Pontiggia.
L'esperienza fatta in quegli anni da Antonio Triacca, fu molto coinvolgente e formativa. Successivamente si laurea in architettura, ma dopo la laurea in architettura, ha preferito dedicarsi alla pittura e all'insegnamento. Ha realizzato vetrate, vasti mosaici e affreschi. Affianca alla pittura l'arte dell'incisione. La critica ha sempre apprezzato la scelta degli spazi espositivi qualificati che Antonio Triacca ha sempre utilizzato per le proprie personali.
1964-1970 LA FORMAZIONE E LE PRIME SPERIMENTAZIONI

È soprattutto dal 1967 che Triacca inizia ad intraprendere esperienze fondamentali per la sua formazione. In quell'anno apre a Monza l'Istituto d'Arte grazie ad alcuni professionisti ed insegnanti che danno il via ad una sperimentazione didattica. L'istituto infatti vuole ricalcare i metodi didattici del Bauhaus. Come la scuola di Gropius gli insegnanti vogliono fare dell'istituto un luogo di sperimentazione e innovazione nel campo della didattica e nell'educazione artistica. Il carattere della scuola vuole essere antiaccademico e anti teorico. L'aspetto pratico-progettuale è posto in primo piano, così come la partecipazione attiva dello studente, chiamato a mettere in pratica le idee e le nozioni apprese. Maestri e allievi sono coinvolti a partecipare insieme a sperimentazioni ed esperienze delle più svariate. Inoltre la didattica acquista un carattere interdisciplinare: non è più racchiusa in moduli separati e in comunicanti, ma si sviluppa in modo organico. Gli studenti, come i docenti, arrivano da percorsi diversi: qualcuno da esperienze di lavoro, qualcuno dal liceo o da scuole differenti. Molti studenti di quegli anni sono entrati a far parte poi del corpo insegnanti. Era quella una situazione davvero particolare nella storia dell'Istituto.
La scelta di intraprendere un percorso a carattere creativo, nell'ambito artistico, avviene per Triacca già nella scuola dell'obbligo. L'espressione attraverso forme e colori lo attira da subito: la libertà che la comunicazione delle immagini gli offre si adatta alla sua sensibilità. Già dopo la scuola media decide quindi di intraprendere una percorso seguendo i suoi interessi artistici.
L'artista si iscrive nel 1964 alla scuola civica d'arte P. Borsa di Monza, alle porte di Milano. È qui che inizia ad avere contatti con alcuni insegnanti ed operatori del settore artistico.
La scuola ha prevalentemente carattere professionale: i corsi e gli insegnamenti tendono cioè ad una preparazione prevalentemente tecnica. La figura dell'artista è intesa qui come artigianale, ed in questo senso l'arte è un "mestiere" che si apprende grazie alla pratica assidua.
All'interno dei corsi insegnano pittori come Alessandro Bruschetti, Giuseppe Colombo, Gaetano Ottolina, Fulvio Comi. Alessandro Bruschetti, pittore umbro, aveva partecipato al secondo futurismo italiano e riportava a Monza il clima di questa corrente.
Giuseppe Colombo, allievo di Marino Marini, viveva l'esperienza milanese della neo figurazione e anche se non ne condivideva l'orientamento riportava agli studenti il clima di quegli anni e del fermento culturale dell'Accademia di Brera.
Gaetano Ottolina era cresciuto nell'ambiente del vecchio Istituto Superiore Industriale Artistico di Monza, con Semeghini e Arturo Martini. Fulvio Comi, come Ottolina, trasmetteva gli insegnamenti che avevano come matrice l'impostazione didattica dell' I.S.I.A.
All'interno dei corsi si distingueva in modo particolare la sezione di pittura che si staccava dal clima artigianale, rivendicando una maggior attenzione al mondo degli artisti, in particolare alla pittura post-impressionista.
È soprattutto dal 1967 che Triacca inizia ad intraprendere esperienze fondamentali per la sua formazione. In quell'anno apre a Monza l'Istituto d'Arte grazie ad alcuni professionisti ed insegnanti che danno il via ad una sperimentazione didattica. L'istituto infatti vuole ricalcare i metodi didattici del Bauhaus. Come la scuola di Gropius gli insegnanti vogliono fare dell'istituto un luogo di sperimentazione e innovazione nel campo della didattica e nell'educazione artistica. Il carattere della scuola vuole essere antiaccademico e anti teorico. L'aspetto pratico-progettuale è posto in primo piano, così come la partecipazione attiva dello studente, chiamato a mettere in pratica le idee e le nozioni apprese. Maestri e allievi sono coinvolti a partecipare insieme a sperimentazioni ed esperienze delle più svariate. Inoltre la didattica acquista un carattere interdisciplinare: non è più racchiusa in moduli separati e in comunicanti, ma si sviluppa in modo organico. Gli studenti, come i docenti, arrivano da percorsi diversi: qualcuno da esperienze di lavoro, qualcuno dal liceo o da scuole differenti. Molti studenti di quegli anni sono entrati a far parte poi del corpo insegnanti. Era quella una situazione davvero particolare nella storia dell'Istituto.Inizialmente vengono aperte due sezioni con due orientamenti: un settore grafico e l'altro più inerente all'architettura di interni. Triacca si iscrive al corso di grafic-design.
Vi insegnano pittori, scultori, architetti e designers come Marcolli, Ramous, Provinciali, Fronzoni, Silvestrini, Valentini e Spagnolo. Questi artisti cercano di trasmettere un modo nuovo di guardare all'arte, meno rigido e tradizionale. Il dibattito sul ruolo stesso dell'arte e dell'artista nei confronti della società è in quegli anni coinvolgente in tutti i reparti. È in atto il cambiamento che dilagherà in tutte le discipline negli anni seguenti, in un clima di rivoluzione all'interno delle istituzioni. Tra gli studenti vi è anche una forte motivazione politica.
Grazie al fatto che la scuola è al suo primo anno di attività, nel primo ciclo di insegnamento, quello a cui prende parte Triacca, è ancora in fase di sperimentazione: i programmi sono ancora fogli bianchi su cui scrivere e nei quali mettere alla prova approcci alle materie inconsueti, diversi dalla tradizione.
Non è solo una scuola ma piuttosto un laboratorio di ricerca all'avanguardia nella sperimentazione di nuovi materiali. Ad esempio nel laboratorio di tecniche plastiche si conducono esperienze insolite per l'epoca. Il legno, la creta, la pietra non sono utilizzati in modo tradizionale, ma vengono usati per assemblaggi e prove didattiche non legate al concetto di scultura tradizionalmente inteso. Per comprendere quali nuovi intenti vengono messi in pratica dagli insegnanti si può citare l'esempio di sperimentazione fatta con i pezzi di scarto, i rifiuti che vengono raccolti tra i rottami. Gli studenti vengono portati con un camion in una discarica industriale dove prelevano ingranaggi, pezzi di macchinari e oggetti di rifiuto con i quali provare la tecnica del calco, dell'assemblaggio e cimentarsi con nuovi materiali prima non considerati dall'arte tradizionale, come le materie plastiche. Le nuove proprietà a volte inaspettate di questi materiali trasmettono energie inaspettate. Il concetto di opera d'arte viene ampliato e riveduto; la formazione del pittore riformataIn questi anni all'Istituto d'arte di Monza il clima che si respira è quindi quello di un grande banco di prova dove si possono tentare tecniche nuove e addentrarsi in tematiche o studi meno legati ai programmi tradizionali.
In questo senso anche il tempo da dedicare alla pratica e alla sperimentazione esula da quello scolastico: gli studenti possono fermarsi nelle aule anche oltre l'orario. Il preside ottiene come spazi scolastici alcune sale della Villa Reale di Monza. Il carattere sperimentale e interdisciplinare favorisce il formarsi di piccoli gruppi di studenti che si ritrovano a lavorare durante i pomeriggi nelle sale della villa. Il numero esiguo di iscritti permette loro di avere uno "studio" personale, come in un grande laboratorio in cui lavorano diversi pittori.
Questo fu possibile soltanto nei i primi cinque anni,in quelli successivi non fu più attuabile soprattutto per problemi burocratici e organizzativi: dal 1972 in poi diviene una scuola a tutti gli effetti, cioè dipende dal provveditorato agli studi e dai concorsi per l'assunzione di personale. Le graduatorie dei docenti non permettono più di chiamare ad insegnare pittori e professionisti senza i titoli di studio richiesti. In quegli anni anche a professionisti non laureati, come Fronzoni, venivano affidate delle cattedre. Questi insegnanti possedevano infatti un'esperienza prevalentemente fatta sul campo, nella pratica della professione.
Attorno al clima monzese dell'Istituto d'arte si formano gruppi di amici che manifestano interessi nel crescente dibattito che scuoteva il mondo artistico e intellettuale. In particolare si fa più accesa la critica nei confronti di un circuito dell'arte chiuso, con metodi di stampo ancora ottocentesco. Gli studenti, grazie alle riflessioni nate in ambito scolastico, sono più attenti a capire la funzione dell'arte e il ruolo dell'artista in quel preciso contesto, oltre che le contraddizioni di un operare libero e slegato dalla tradizione in un ambito sociale che ancora si basava su modelli precostituiti.
Si viveva di riflessi quello che stava succedendo all'Accademia di Milano, dove alcuni artisti iniziano a mettersi in discussione prendendo le distanze dalle correnti di pensiero più tradizionaliste.
Per concludere, questi due momenti, quello della scuola civica e quello dell'Istituto d'arte, rappresentano due realtà diverse, ma entrambe hanno contribuito a formare la sensibilità del pittore e il suo approccio al lavoro di artista.
Soprattutto un incontro è stato per Triacca molto significativo: quello con Nanni Valentini.
L'INCONTRO CON NANNI VALENTINI

La scelta di intraprendere un percorso a carattere creativo, nell'ambito artistico, avviene per Triacca già nella scuola dell'obbligo. L'espressione attraverso forme e colori lo attira da subito: la libertà che la comunicazione delle immagini gli offre si adatta alla sua sensibilità. Già dopo la scuola media decide quindi di intraprendere una percorso seguendo i suoi interessi artistici.
L'artista si iscrive nel 1964 alla scuola civica d'arte P. Borsa di Monza, alle porte di Milano. È qui che inizia ad avere contatti con alcuni insegnanti ed operatori del settore artistico.
La scuola ha prevalentemente carattere professionale: i corsi e gli insegnamenti tendono cioè ad una preparazione prevalentemente tecnica. La figura dell'artista è intesa qui come artigianale, ed in questo senso l'arte è un "mestiere" che si apprende grazie alla pratica assidua.
All'interno dei corsi insegnano pittori come Alessandro Bruschetti, Giuseppe Colombo, Gaetano Ottolina, Fulvio Comi. Alessandro Bruschetti, pittore umbro, aveva partecipato al secondo futurismo italiano e riportava a Monza il clima di questa corrente.
Giuseppe Colombo, allievo di Marino Marini, viveva l'esperienza milanese della neo figurazione e anche se non ne condivideva l'orientamento riportava agli studenti il clima di quegli anni e del fermento culturale dell'Accademia di Brera.
Gaetano Ottolina era cresciuto nell'ambiente del vecchio Istituto Superiore Industriale Artistico di Monza, con Semeghini e Arturo Martini. Fulvio Comi, come Ottolina, trasmetteva gli insegnamenti che avevano come matrice l'impostazione didattica dell' I.S.I.A.
All'interno dei corsi si distingueva in modo particolare la sezione di pittura che si staccava dal clima artigianale, rivendicando una maggior attenzione al mondo degli artisti, in particolare alla pittura post-impressionista.
È soprattutto dal 1967 che Triacca inizia ad intraprendere esperienze fondamentali per la sua formazione. In quell'anno apre a Monza l'Istituto d'Arte grazie ad alcuni professionisti ed insegnanti che danno il via ad una sperimentazione didattica. L'istituto infatti vuole ricalcare i metodi didattici del Bauhaus. Come la scuola di Gropius gli insegnanti vogliono fare dell'istituto un luogo di sperimentazione e innovazione nel campo della didattica e nell'educazione artistica. Il carattere della scuola vuole essere antiaccademico e anti teorico. L'aspetto pratico-progettuale è posto in primo piano, così come la partecipazione attiva dello studente, chiamato a mettere in pratica le idee e le nozioni apprese. Maestri e allievi sono coinvolti a partecipare insieme a sperimentazioni ed esperienze delle più svariate. Inoltre la didattica acquista un carattere interdisciplinare: non è più racchiusa in moduli separati e in comunicanti, ma si sviluppa in modo organico. Gli studenti, come i docenti, arrivano da percorsi diversi: qualcuno da esperienze di lavoro, qualcuno dal liceo o da scuole differenti. Molti studenti di quegli anni sono entrati a far parte poi del corpo insegnanti. Era quella una situazione davvero particolare nella storia dell'Istituto.Nanni Valentini è un artista marchigiano nato a Sant' Angelo in Vado (Pu) nel 1932. È pittore ma soprattutto scultore e ceramista. "Il mio lavoro è sempre stato un rimbalzo continuo tra la pittura e la ceramica. Si potrebbe dire tra l'apparenza e la certezza o tra il visibile e il tattile."
Nel 1945 frequenta la Scuola d'arte per decorazione di ceramica a Pesaro, mentre nel 1949 si iscrive all'Istituto d'arte di Faenza. Intraprende nel 1953 il lavoro di ceramista nella bottega di Bruno Baratti a Pesaro. Si diploma lo stesso anno e comincia a frequentare l'Accademia di Bologna. Inizia in questi anni ad esporre e ad ottenere diversi premi come ceramista, tra cui il terzo premio al Premio Deruta. Alla sua attività scultorea affianca sempre quella di pittore.
Nel suo percorso sperimenta diversi materiali oltre la terracotta, come laterizi, cera, sabbia, catrame.
Viene introdotto da Fontana nel contesto artistico milanese ed è grazie a lui che nel 1958 tiene la sua prima mostra all'Ariete di Milano con lavori di terracotta greificata.
Nel 1959 l'attività di pittore entra in crisi mentre invece continua a produrre ceramiche. Sempre come ceramista, partecipa alla Triennale di Milano, dove ottiene una medaglia d'oro.
Nel 1968 è nuovamente a Milano, dove svolge molta attività politica in seno al gruppo promotore di Manifestazione d'arte di protesta.
Nel 1969 prende a insegnare all'Istituto d'arte di Monza, dove rimarrà fino al 1985. Qui si lega soprattutto a Silvestrini, con cui svolge ricerche sul colore e sul linguaggio visivo. Fino al 1972 si impegna in un approfondimento su diverse problematiche inerenti l'arte, la filosofia e il linguaggio. Legge autori come Foucault, Derrida, Barthes, Eco. Esegue schizzi e studi analitici oltre che ceramiche che rientrano nelle speculazioni inerenti questo campo di ricerca. Riprende molti spunti dai suoi primi lavori.
Nel 1973 riprende l'analisi dei suoi lavori sul segno, vicini alla poetica dell'Informale, unendo gli ultimi studi sulla semiologia e sulla didattica. Cerca così di attuare una sintesi dei diversi aspetti per trovare un nuovo percorso da intraprendere. Sperimenta in questo periodo molti materiali come la carta pesta, il cartone bagnato, la cera, la sabbia, il cemento, la garza, il legno e la terracotta. Gli strumenti privilegiati restano la terracotta e il disegno e i primi risultati di questi esperimenti sono impronte di alberi e foglie.
Nel maggio del 1981 tiene una personale alla galleria San Marco di Seregno insieme ad Antonio Triacca.
L'anno successivo espone alla Biennale di Venezia, mentre nel gennaio del 1984 inaugura una personale al Padiglione d'arte contemporanea di Milano. Contemporaneamente espone al Salone Annunciata di Milano nella mostra dal titolo: "l'Immagine esistenziale". Partecipa inoltre alla XXIX Biennale di Milano alla Permanente.
Muore improvvisamente il 5 dicembre del 1985.
Antonio Triacca incontra Nanni Valentini nel 1969, quando cioè l'artista marchigiano è chiamato ad insegnare all'Istituto d'arte di Monza.
Triacca lo definisce come un "personaggio unico nel modo di "guardare" e analizzare i linguaggi espressivi artistici. I suoi studi sulla teoria della forma e della figurazione, le proposte didattiche che avevano come riferimento Klee e la filosofia greca presocratica, il pensare l'arte come ricerca e approfondimento della conoscenza diventavano per i suoi allievi un punto di partenza per costruire la propria dimensione espressiva."
E proprio punto di partenza diventa anche per Triacca. L'incontro con questo pittore e scultore, ma soprattutto studioso del linguaggio dell'arte e ricercatore didattico, gli apre nuove prospettive inaspettate. Il modo di trattare e affrontare le tematiche, il suo metodo di lavoro, la maniera di intendere la materia di Valentini hanno avuto per lui una forte incidenza. È soprattutto l'approccio ai temi e al lavoro di artista che affascina Triacca e diventa per lui metodo utile da cogliere, così vicino alla sua sensibilità.
"Spesso nel suo studio si lavorava intorno a questi temi. Si sperimentavano tecniche ma soprattutto si imparava a conoscere attraverso il "fare" una nuova metodologia rivolta alla ricerca linguistica."
Questa ricerca linguistica diventerà cifra stilistica dello stesso pittore lombardo, teso all'indagine sugli strumenti linguistici dell'arte.
Una breve panoramica sull'attività e sul pensiero di Valentini consentono di cogliere molte consonanze con la pittura, il metodo e la poetica di Triacca e di comprendere maggiormente la genesi dello sviluppo dei suoi mezzi espressivi.
Valentini ha sempre affiancato la sua attività di scultore a quella di pittore. Le sue prime opere risalgono agli anni '50. Indaga la terra nel suo configurarsi naturale in forme primarie e analizza le sue caratteristiche, come la rugosità o la fragilità. Lavora sul rapporto e sul dialogo tra la terra e gli altri tre elementi primari: aria, acqua e fuoco. Essi sono anche legati a temi alchemici, ad una trasformazione in atto. La terra prende forma grazie all'acqua che la rende plasmabile, entra in rapporto con l'aria essiccandosi, tornando cioè al suo stato solido; Il fuoco imprime la forma e il colore. Spesso procede per cicli tematici, con frequenti riferimenti alla mitologia.
Le tematiche ricorrenti, oltre a quelle del cielo e della terra, sono anche riferite al volto e alla figura, ad esempio a quella dell'angelo, che gli offre la possibilità di sviluppare un segno vorticoso e svolazzante. Inoltre gli consente di trattare il tema del dentro e del fuori: l'angelo infatti è allo stesso tempo anima interiore dell'uomo ma risiede fuori dal corpo; l'agitarsi delle sue ali crea vortici e spirali. Il rapporto tra mondo interiore ed esteriore lo riporta al tema della soglia. Il suo stesso dare forma alla terra è un rendere visibile qualcosa che prima non è possibile vedere. In questo senso Valentini non plasma la forma ma la lascia accadere. Non è mai una forma chiusa e statica ma porta con sè le tracce della trasformazione; non è stabilita a priori ma cercata attraverso un continuo interrogare la stessa materia.
Fondamentali in tutta la sua opera sono la sperimentazione e la poetica del segno. Il segno è indagato in primo luogo attraverso il disegno: spesso di tratta di schizzi e studi che vengono affidati alla carta. Ogni forma alla quale si accinge a dare vita deve secondo lui avere uno spessore, non in senso fisico soltanto, ma anche di significato, di pensiero. I disegni sono eseguiti con la stessa materia delle sculture: terra e acqua. La sua pittura non è solo progetto per la scultura ma piuttosto un vocabolario di idee, appunti visivi ed espressivi, una tensione che porterà ad una conclusione tridimensionale. La pittura per Valentini "è un fatto proprio di idee, di idee sulla cultura".
L'approccio di Triacca al disegno su carta è in qualche modo simile, in quanto anche il pittore lombardo affida a questo supporto le sue idee, le lascia confluire in uno schizzo che non rappresenta il bozzetto dell'opera finale, bensì un percorso di analisi, interrogativo.
Le carte di Valentini condividono gli stessi temi di ricerca della scultura oppure possono nascere talvolta autonomamente rispetto ad essa ma partecipano all'indagine sugli stessi problemi formali.
Utilizza non di rado il carboncino e i colori a cui sovrappone carte e ritagli già dipinti. I suoi colori sono quelli delle terra: le ocre, i neri e gli azzurri.
Nella pittura Valentini riversa le sue emozioni più libere che si traducono in segni e gesti senza evidente rapporto col reale. Nei suoi dipinti si delineano vortici, forme circolari, concavità. In tutta la sua opera il segno è davvero un elemento ricorrente: un segno nello spazio che non è slegato dalla materia ma che sottende ad uno stesso discorso. La linea diventa una traccia, un segno e poi superficie; esprime in tempo proprio nel suo svilupparsi nello spazio. Il vuoto non è un campo privo di forze ma bensì il suo fulcro tende all'infinito. I suoi segni sono percorsi, sono tracce ancora invisibili ma che già la materia presagisce.
I risultati che ottiene in campo pittorico fanno pensare alle recenti esperienze informali. Tuttavia non è del tutto esatto far derivare questo da un'adesione volontaria alla poetica dell'Informale. Sicuramente in parte egli attinge da questo clima, nel quale vive e che imperversa negli anni in cui inizia a dipingere: l'energia del gesto, la matericità delle sue opere, l'approccio privo di schemi precostituiti e l'impeto libero di fluire. Egli stesso afferma: "Innanzi tutto io non è che abbia mai avuto una stagione informale. Ho fatto tanti disegni, tanti quadri; l'Informale è venuto così, quasi di conseguenza."
Dopo una prima fase figurativa, nei suoi quadri trovano posto segni violenti di immagini e forme libere ma sempre in contrasto con la presenza di una struttura definita. Inizialmente Valentini individua infatti un primitivo scheletro, molto sintetico, che viene poi "ricoperto" da stratificazioni di segni e colori. I suoi disegni sono sovente caratterizzati da un notevole spessore materico. L'impeto del segno violento trova grazie alla struttura i giusti rapporti spaziali.
Pur in questo rigore riesce a mantenere l'arditezza graffiante del segno immediato. Il frammento è inserito quindi in questo spazio fatto di trame e percorsi senza fine. La struttura geometrica possiede punti di snodo che esercitano un'attrazione, quella che lui definisce una "seduzione". Questo discorso rappresenta in qualche modo in nuce il metodo espressivo dello stesso Triacca. Egli rimane legato a questa metodologia di approccio allo spazio. Pur vivendo una stagione informale, che anche per lui si presenta come una condivisione di una libertà espressiva e un impeto nel segno quasi inconsapevolmente informali, Triacca non rinuncia a dare ai suoi quadri un fondamento strutturale determinato. Egli vi giunge non immediatamente, ma compie una serie di studi ed esperienze che lo portano a trovare il suo linguaggio. Tuttavia si ravvisa nell'esempio del maestro un forte impulso in questa direzione, un impianto di metodo che trova nell'artista un terreno fertile.
Nel discorso di Valentini il segno comunque non è mai un discorso a parte rispetto alla materia: egli cerca di indagare la gamma di segni che è presente nella terra, in questo materiale che gli fornisce le immagini su cui lavorare essendo essa stessa generatrice di forme. Infatti l'artista lascia che la forma nasca da sollecitazioni interne alla materia stessa, cercando di capirne la sostanza e caricandola così di ulteriori significati. È comunque un'indagine sul reale e sul suo configurarsi spontaneo: cerca di comprendere i modi della trasformazione e le cause dell'agire di determinate forze. Egli deriva dalla filosofia presocratica il concetto materia quale sostanza delle cose che sono in natura. Il ruolo di quest'ultima assurge a divinità, rappresenta l'universo stesso. La materia è il luogo dove avvengono le trasformazioni, l'anima di tutto ciò che possiede il principio del movimento in sé. Le forme sono le tracce di avvenute trasformazioni.
Valentini è sempre alla ricerca di forme e figure "prime", di archetipi visivi.
Anche il ruolo dato alla memoria è molto importante: i paesaggi sono registrati dalla mente, le immagini sono colte da uno sguardo cosciente, che le ordina e le struttura.
La sua ricerca è volta a rivelare"il meccanismo di stratificazioni simboliche dell'inconscio collettivo e individuale fatto, come scriveva Bergson, di materia e memoria."
Il simbolo entra a far parte dell'opera nel momento in cui diventa magico; questo può accadere soltanto quando unisce due cose lontane, una evidente ed una invisibile. Se l'immagine che infine si presenta viene riconosciuta, se questa unione è vissuta internamente anche da chi osserva allora è un archetipo, altrimenti resta solo un'allegoria.
La ricerca dell'immagine e dei temi da parte di Triacca è tesa in questo senso alla ricerca di qualcosa che possa essere "vissuto internamente". Il suo interesse per l'archetipo, la ricerca di temi che hanno a che fare con la memoria collettiva, o meglio con l'immaginario dell'essere umano, diventa motivo di ricerca continua, stimolo all'attività pittorica. È lo stesso Valentini nel 1980, in occasione della mostra che i due allestiscono insieme alla Galleria San Marco di Seregno, a consigliargli la lettura del filosofo Bachelard. La ricerca dello studioso francese è proprio volta ad indagare i meccanismi insiti all'immaginazione e di conseguenza alle forme più ricorrenti che da essa scaturiscono. L'opera di Triacca da questo momento non smette più di avere a che fare con i temi proposti da Bachelard nei sui testi: "La poetica dello spazio" e "La poetica della reverie", di cui tratterò più avanti.
Tutto il processo creativo viene considerato da Valentini ciò che dà un senso al suo operare. Il risultato non è alla fine del processo ma nel metodo. È questo un altro aspetto che accomuna il pensiero dei due artisti. Il modo di intendere la creatività e la realtà dell'artista proprie di Valentini hanno lasciato un'impronta profonda su Triacca. Anche lui infatti non si prefigge come scopo quello di produrre un oggetto da contemplare in modo passivo, ma considera l'opera e il suo senso più intimo come un luogo dove accadono eventi.
"L'approccio di Valentini", afferma Triacca, " è diventato anche per me un modo di intraprendere un percorso."
1981-1986 LA LETTURA DE "LA POETICA DELLO SPAZIO" DI GASTON BACHELARD

Molte tematiche affrontate da Antonio Triacca sono ispirate, anche se il termine è restrittivo, a testi di Gaston Bachelard, filosofo francese della prima metà del Novecento. Il termine "ispirate" non è del tutto esatto in quanto Triacca ritrova nel pensiero bachelardiano numerose consonanze con il proprio modo di intendere relativo ai concetti di spazio e di immaginazione. In particolare Triacca individua negli studi del filosofo sull'immagine poetica (assimilabile per certi versi all'immagine pittorica) temi a lui cari ma anche teorie filosofiche applicabili al suo modo di concepire l'immagine e il suo processo di formazione.
È soprattutto un'opera che Triacca apprezza e studia: si tratta di "La poetica dello spazio". Molti temi ivi contenuti sono emersi più volte nel corso della sua produzione ed hanno fornito più che uno spunto per la sua pittura.
"LA POETICA DELLO SPAZIO"
Scopo di Bachelard è quello di individuare una sorta di fenomenologia dell'immaginazione e dell'immagine poetica.
"È necessario pervenire ad una fenomenologia dell'immaginazione, per poter gettare luce filosofica sul problema dell'immagine poetica: intendiamo con ciò uno studio del fenomeno dell'immagine poetica, quando l'immagine emerge alla coscienza come prodotto diretto del cuore, dell'anima, dell'essere dell'uomo colto nella sua attualità".
Ecco enunciata la tesi da cui intende partire per sviluppare una fenomenologia dell'immaginazione.
Per fenomenologia egli intende l'analisi del fenomeno, inteso come manifestazione dell'immagine poetica, cioè di come essa emerga nella coscienza dell'uomo e del suo legame con la sfera dell'emotività, cioè il lato intimo dell'essere umano.
Bachelard esordisce nell'introduzione chiarendo che il filosofo della scienza, per studiare ciò che concerne l'immaginazione poetica, deve staccarsi dal suo bagaglio di sapere.
"Un filosofo (…) è obbligato a dimenticare il suo sapere e rompere con tutte le sue consuetudini di ricerca filosofica, se desidera studiare i problemi posti dalla immaginazione poetica".
Questo è necessario in quanto bisogna cercare di aderire all'immagine in modo completo, tentando di riviverla piuttosto che provare ad interpretarla. Le conoscenze e il sapere del filosofo precluderebbero questa capacità di lettura "disinteressata", scevra cioè da rimandi culturali e intenzioni critiche.
Sempre nell'introduzione afferma: "Quando dovremo parlare, in seguito, del rapporto tra una immagine poetica nuova e un archetipo assopito nelle profondità dell'inconscio, bisognerà far capire come tale rapporto non sia propriamente causale".
Questa affermazione si riallaccia alle premesse che hanno portato il filosofo all'analisi dell'immagine. Questi "archetipi" possono essere quegli ostacoli che impediscono all'uomo di formulare idee nuove perché lo ancorano a concetti ormai talmente radicati da renderne impossibile la messa in discussione. Ma l'attenzione è ora rivolta a comprendere come determinate immagini nascano e si sviluppino nell'inconscio. Il filosofo pone una distanza tra le immagini poetiche e gli archetipi, negando una relazione di tipo causale, appartenente invece alla visione psicanalitica. Il suo approccio per così dire "fenomenologico" infatti, vuole distanziarsi da uno più prettamente "psicanalitico", del quale contesta la tendenza ad associare il sogno al simbolo, dando alle immagini significati simbolici che trovano poi riscontro nella realtà. Per Bachelard questo processo non porta alla comprensione dell'immagine poetica, ma, al contrario, ne impedisce l'adesione totale. L'approccio fenomenologico si traduce perciò in un tentativo di rivivere l'atto poetico, cogliendo così le immagini senza volerle comprendere a tutti i costi. In questo senso il passato non fornisce spunti per l'emergere delle immagini, anzi sono queste che possono portare a galla i ricordi.
Anche Triacca parla delle sue immagini pittoriche sgombrando il campo da interpretazioni in chiave psicanalitica. La sua pittura è infatti sovente costituita da frammenti evocativi, figure allusive inserite nel quadro alla stregua di stralci poetici, che sembrano affiorare alla sua mente in modo automatico. Si può erroneamente pensare che Triacca scelga le sue immagini pescandole dall'inconscio, da memorie di un passato sedimentato nella mente e che affiorano inconsapevolmente, traducendosi in immagini. In realtà non vi è alcun riferimento all'inconscio, inteso in senso surrealista. Non c'è alcun utilizzo della pratica di automatismo ma al contrario una scelta cosciente e ragionata di quei temi che, hanno sì a che fare con delle immagini archetipiche, ma appartenenti all'uomo in generale. Anche se nel surrealismo si individuano i caratteri di una rivoluzione in ambito figurativo, ossia un superamento della pittura a carattere imitativo di stampo ottocentesco a favore di una nuova libertà espressiva, che Triacca condivide, non vi è connessione tra le associazioni surrealiste di tipo automatico e il modo di giungere all'immagine dell'artista. La sua è un'operazione consapevole, situata all'interno di una coscienza attiva. In questo senso si avvicina a quella che Bachelard chiama "reverie".
Stabilito che né la conoscenza né la memoria o l'inconscio sono causa dello scaturire dell'immagine poetica, Bachelard introduce questo nuovo concetto: l'immagine poetica scaturisce da ciò che il filosofo chiama "reverie".
"La reverie è un'istanza psichica che troppo spesso viene confusa col sogno". Per definire il concetto di reverie occorre confrontarlo con quello di sogno, che ha a che fare con l'inconscio. La dimensione onirica è caratterizzata da uno stato di incoscienza in cui l'io è passivo e "subisce" le immagini che scaturiscono dall'inconscio. "Nella reverie poetica invece l'anima è veglia, senza tensione, serena e attiva". La dimensione della reverie è quindi quella in cui l'io è cosciente, è una sorta di sogno ad occhi aperti; è la dimensione più vera dell'immaginazione, nella quale questa si attiva nella sua funzione dell'irreale, allontanandosi progressivamente dalla realtà. Il termine si può tradurre con "fantasticheria", anche se non è del tutto esatto. La coscienza si trova in uno stato di veglia ma allo stesso tempo lontano dal reale. Il sogno appartiene alla notte, la reverie al giorno. Ne "La poetica della reverie" Bachelard cita un passo tratto da Victor Hugo: "Tutto questo non era né una città, né una chiesa, né un fiume, né colore, né luce, né ombra; era rêverie. - Sono rimasto a lungo immobile, lasciandomi dolcemente penetrare da questo insieme inesprimibile, dalla serenità del cielo, dalla malinconia dell'ora. Non so che cosa capitava nel mio spirito e non potrei dirlo, era uno di quegli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia".
È l'immaginazione dunque a risvegliarsi e a produrre immagini.
Ecco chiarita la via d'accesso all'immagine poetica, quel moto dell'anima che attiva l'immaginazione, facoltà cosciente del poeta o dell'artista.
Allo stesso modo le immagini di Triacca possono essere accostate alla reverie, che peraltro è il titolo di una mostra dell'dell'artista tenuta nel 2003 alla Villa Facchi di Casatenovo (Lc).
Il "Retentissement"
Ho accennato in precedenza come sia necessaria un'adesione totale all'immagine poetica, una partecipazione assoluta che Bachelard sintetizza in un altro concetto altrettanto importante: quello del "retentissement". Si tratta di una sorta di "risonanza", di "eco" in un'accezione diversa. L'eco può essere un semplice richiamo a esperienze passate. Il retentissement non desta semplicemente un ricordo assopito ma risuona nell'anima in modo possente. L'atteggiamento fenomenologico dell'immedesimazione nell'immagine poetica non è semplicemente rievocazione di memorie a partire da qualcosa che l'immagine suscita. Riguarda immagini presenti nella coscienza dell'uomo che se vengono evocate dal poeta possono trovare anche nel lettore una corrispondenza. Il retentissement mette in moto l'attività creativa del lettore, che si immedesima in colui che scrive. "Tutti i lettori che rileggono un'opera che essi amano, sanno che le pagine amate li riguardano".
Questa introduzione prelude alla trattazione che segue, nella quale Bachelard esamina una serie di immagini semplici che definisce "immagini dello spazio felice". Il fine è quello di analizzare il valore degli spazi sotto il profilo antropologico, in particolare degli spazi di possesso, i luoghi difesi e amati. Gli spazi dell'ostilità che evocano conflitti sono solo accennati in favore di una trattazione più ampia dei luoghi che attirano. È l'immaginazione a conferire determinati valori a questi spazi e Triacca traspone alcune di queste immagini sulle sue tele. Sono molte le tematiche riprese nella sua opera: da quella di casa, e la simbologia che ne deriva, a quelle di armadio, di nido, di angolo fino alla dialettica del fuori e del dentro. La sua poetica è strettamente connessa alla poetica dello spazio bachelardiana.
La poetica della casa
Il primo spazio di cui Bachelard si occupa è la casa, immagine di intimità e protezione. La poetica della casa può essere definita come una sorta di topografia del nostro essere intimo. In questa ottica la casa rappresenta uno strumento per un'analisi dell'anima umana. Essa è uno dei luoghi più carichi di valore relativo allo spazio interiore. Attorno ad essa si formano una serie di immagini ora riferite alla casa nel suo complesso, ora riferite alle sue varie parti.
La casa è sinonimo di intimità protetta, è il primo spazio vitale, il nostro "angolo del mondo".[2]
Lo spazio abitato è luogo di protezione, riparo, rifugio. Per individuare nelle immagini di intimità e protezione l'essenza peculiare della casa è necessario richiamarsi alla funzione dell'abitare. La reverie della casa è connessa al nostro modo di vivere gli spazi e ai ricordi delle antiche dimore.
La casa è altresì un elemento di raccolta e custodia dei pensieri e dei sogni dell'uomo.
La casa "sostiene l'uomo attraverso le bufere del cielo e le bufere della vita" e "protegge il sognatore"[3]. Non è solo simbolo di intimità ma è anche rifugio della nostra intimità, dei nostri sogni. I ricordi vi trovano alloggio in quanto la memoria non si registra nel tempo ma trova collocazione in una dimensione spaziale.
I valori riferiti al riparo sono molto radicati nell'inconscio. Se le parole di un poeta o le immagini del pittore sono usate sapientemente, possono destare in noi quel retentissement che risveglia l'immaginazione e ci conduce alla reverie. La casa natale è il luogo che più resta indelebile nel nostro modo di percepire lo spazio dell'abitare.
La casa fornisce all'uomo la sensazione di stabilità. Gli spazi di intimità sono designati dall'attrazione in quanto sono luoghi del benessere. Ma per comprendere quali immagini di stabilità la casa susciti nell'uomo è necessario individuare alcune percezioni basilari dello spazio interno. Innanzi tutto la casa si associa ad un valore di verticalità, che ha i suoi poli nella soffitta e nella cantina. La soffitta rappresenta il polo razionale mentre la cantina quello irrazionale. La prima ripara l'uomo dagli agenti atmosferici; la seconda incarna il luogo oscuro, "l'essere che partecipa alle potenze sotterranee". [4]Lo spazio così inteso fornisce al filosofo un modello per illustrare alcune sfumature psicologiche. Anche Jung si serve di questa contrapposizione soffitta-cantina per analizzare la paura e utilizza un'immagine che Bachelard cita: "La coscienza si comporta allora come un uomo che, sentendo un rumore sospetto in cantina, si precipita in soffitta per costatarvi che non ci sono ladri e che, conseguentemente, il rumore era pura immaginazione. In realtà, quell'uomo prudente non ha osato avventurarsi in cantina". [5]
Questa immagine può far rivivere "fenomenologicamente" le due paure: nella soffitta queste si razionalizzano mentre la cantina rappresenta l'inconscio, dove il buio regna giorno e notte. In questo caso Bachelard ravvisa nell'immagine descritta dallo psicologo un retentissement efficace che ridesta in noi l'esperienza delle due paure.
Attraverso alcune immagini letterarie e poetiche il filosofo trae esempi per una fenomenologia dell'immagine. Dal romanzo di Henri Bosco il filosofo trae immagini della cantina, delle scale, del soffitto a volta e della torre che illustrano il valore di verticalità, condensando in esso le immagini delle due polarità.
La casa richiama il rifugio, il centro in cui sentirsi sicuri, angolo in chi rannicchiarsi, il nido, la tana. È la zona di forza, centro di massima protezione. Questo conduce alla reverie della capanna, casa primitiva che con la sua rotondità ci avvolge.
Altra immagine che nasce nella reverie della casa riguarda la luce che è in essa e che filtra attraverso le finestre. "Con la sua sola luce, la casa è umana, vede come un uomo, è un occhio aperto sulla notte". [6]
Triacca utilizza queste associazioni in temi da lui tratti quali la casa, ma anche la conchiglia, che rappresenta la casa del mpllusco, ambiente accogliente, racchiuso, luogo di attrazione, di rifugio, nascondiglio.
Il nido


Per una fenomenologia della poetica del nido Bachelard individua nelle parole di Victor Hugo, tratte da Notre-Dame de Parise e riferite al protagonista Quasimodo, uno spunto per giungere a definire il potere del rifugio. Esso è in grado di dare la propria forma a chi ci abita, come una chiocciola assume la forma del guscio. Così per Quasimodo la cattedrale diviene la casa, il nido, l'universo. L'essere umano, come l'animale, trova nella casa un luogo in cui rifugiarsi, un angolo in cui rannicchiarsi, un buco in cui ritirarsi, una tana per nascondersi. Il nido è la creazione perfetta dell'uccello. La fenomenologia del nido parte dalla constatazione del piacere che procura l'osservare immagini di nidi o scoprirne uno tra gli alberi. Il nido è un nascondiglio per gli uccelli che lì si mimetizzano tra le fronde. Il nido che provoca la reverie non è quello abbandonato, ma quello vivente. Bachelard sviluppa una ricerca dei nidi in letteratura.
"Già l'albero che ha l'onore di procurare un rifugio ad un nido partecipa al mistero del nido."[7]
Il nido esprime riposo rasmette tranquillità. Esso si associa all'immagine della casa semplice. Van Gogh osservando le capanne nei campi le paragona ai nidi di scriccioli, coperti da un tetto che ripara.
Al nido vi si fa ritorno ed è per questo che ridesta la reverie collegata alla fedeltà.
Il nido possiede una soglia accogliente. Bachelard tornando al rapporto tra la forma della casa e il corpo che ci abita parla dell'uccello che costruisce il suo nido con tutto il corpo, girandosi di continuo e comprimendo la paglia col suo petto. In questo modo crea un cerchio attorno a sé
Il nido è l'emblema della nostra fiducia verso il mondo: paradossalmente anche se la sua posizione è precaria e la struttura instabile, noi continuiamo a vederlo come simbolo di sicurezza. Nel nido l'uovo viene covato e si schiude; è solo in seguito che il pulcino conoscerà l'ostilità del mondo.
La dialettica del fuori e del dentro
Le immagini immediatamente collegate a questa dialettica sono quelle di positivo e negativo. In filosofia è invece associata alla dialettica di essere e non-essere. Una metafora che si costruisce su questo rapporto è quella dell'aperto e del chiuso. "Dentro" e "fuori" richiamano nozioni geometriche in quanto determinazione di spazi in rapporto tra loro. In questo senso il limite, la barriera tra l'uno e l'altro, è la soglia. La soglia per eccellenza è la porta. La porta socchiusa provoca la reverie del desiderio, della tentazione di aprirla e scoprire ciò che sta all'interno o all'esterno. La porta è anche chiusa, inequivocabilmente sbarrata, o piuttosto spalancata, aprendoci un varco verso la libertà.
Tra interno ed esterno c'è in un certo senso asimmetria, in quanto l'interno si associa ad uno spazio ridotto, ristretto, mentre lo spazio che sta fuori è vasto e smisurato.
[1] Ibidem, pag.16
[2] Bachelard, Gaston,"La poetica dello spazio", Dedalo Libri, Bari, 1975, pag. 32
[3] Ibidem
[4] Ibidem, pag. 46
[5] Bachelard, Gaston,"La poetica dello spazio", Dedalo Libri, Bari, 1975, pag. 46
[6] Ibidem, pag. 62
[7] , Gaston,"La poetica dello spazio", Dedalo Libri, Bari, 1975, pag. 121
IL SEGNO RACCONTA


Il segno ha sempre rappresentato per Triacca l'elemento base della sua scrittura figurativa. Fin dai primi disegni è stato cifra stilistica dell'artista. Tracciato con il colore, con il pennello, con la grafite, con il carboncino o con la punta secca e il bulino, è servito per indagare le forme, per strutturare le immagini, per osservare la conformazione e la geometria degli oggetti. Nella prima metà degli anni settanta, il segno è stato protagonista libero, non totalmente avulso da intenti strutturali e compositivi, ma più ingenuo e spontaneo nella sua formulazione. Dal momento in cui Triacca "scopre" ed utilizza coscientemente i principi della percezione visiva, grazie ai quali il segno, organizzato in immagini, trova collocazione e pregnanza, la traccia lasciata dal pennello o dalla grafite acquistano sempre più autonomia. È così che dal 1975 circa Triacca inizia un nuovo percorso di indagine che egli stesso definisce con il titolo "Il segno racconta". Sotto questa sigla, che è anche dichiarazione di poetica, sono riuniti diversi soggetti: il segno può raccontare la figura, la conchiglia, il nido, la cavalletta ma con maggior frequenza e interesse il segno racconta soprattutto il paesaggio.
Il Paesaggio
È intorno alla metà degli anni settanta che la sua pittura di paesaggio diventa pretesto per indagare il segno. Triacca mantiene un rapporto sempre vivo con l'osservazione dal vero, che ritiene indispensabile alla formazione dell'immagine. Tuttavia nei suoi lavori è sempre il segno a scandire la rappresentazione. Qualsiasi soggetto osservato e tradotto sulla superficie pittorica viene delineato e allo stesso tempo trasfigurato dal segno, che fa da tramite alle emozioni che il paesaggio suscita; esso rappresenta la scrittura personale del pittore, il cursore che registra la carica emotiva del gesto e l'immediatezza della trascrizione pittorica.La pittura di paesaggio è sperimentata dall'artista fin dal periodo di studio all'Istituto d'arte di Monza. Il primo approccio avviene infatti negli anni della formazione insieme ai pittori monzesi che insegnavano all'Istituto. In quegli anni Triacca partecipa a diverse escursioni al parco di Monza e nelle zone circostanti, o anche in paesi fuori porta, come Trezzo d'Adda. Il primo passo è sempre l'osservazione dal vero. Queste esercitazioni per così dire "en plein air", sono eseguite con il cavalletto posizionato in un luogo all'aperto scelto dall'artista. Triacca produce numerosi schizzi e studi dipinti direttamente sulla tela o sul foglio. È, in questa prima fase, un tipo di pittura di carattere impressionista, rivolta essenzialmente allo studio delle qualità ottiche del colore e della luce e dei loro rapporti cromatici. Solo in seguito l'attenzione viene rivolta anche alla definizione delle forme, alle geometrie dello spazio e all'analisi delle masse, percepite come pieni e vuoti che scandiscono lo scorcio paesaggistico, in un'ottica quasi cezanniana.
È intorno alla metà degli anni settanta che la sua pittura di paesaggio diventa pretesto per indagare il segno. Triacca mantiene un rapporto sempre vivo con l'osservazione dal vero, che ritiene indispensabile alla formazione dell'immagine. Tuttavia nei suoi lavori è sempre il segno a scandire la rappresentazione. Qualsiasi soggetto osservato e tradotto sulla superficie pittorica viene delineato e allo stesso tempo trasfigurato dal segno, che fa da tramite alle emozioni che il paesaggio suscita; esso rappresenta la scrittura personale del pittore, il cursore che registra la carica emotiva del gesto e l'immediatezza della trascrizione pittorica.Con il passare del tempo il paesaggio di Triacca, osservato e vissuto, diventa immagine e colore nella sua mente, si trasforma e si sviluppa, nel sedimentarsi delle sensazioni provate "dentro" il paesaggio stesso, percorso e familiare. Egli dipinge sempre dal vero, ma questa pratica diventa una fase precedente alla realizzazione delle opere, nella quale egli acquisisce le immagini, le studia, le "apprende" e le interiorizza, per poterle utilizzare nella realizzazione del dipinto, che avviene in studio, successivamente all'osservazione diretta.
Questi frammenti di paesaggio vengono così richiamati alla visione e prendono nuova forma direttamente dall'idea mentale dell'artista sulla tela o sul foglio. L'osservazione profonda della natura gli consente di comprendere la genesi delle forme naturali, di scoprire la dinamica stessa del processo di crescita, di mutamento, di erosione e di movimento del paesaggio e di farla propria per poterla rimettere in gioco nel processo di produzione del segno e dell'immagine.
È questa un'ottica che si avvicina e prende ispirazione dalla pittura di Paul Klee, secondo il quale "l'arte non ripete le cose visibili, ma rende visibile"[1]. In questo senso è fondamentale la scoperta dei meccanismi di genesi formale, dei principi secondo i quali il paesaggio si configura, delle dinamiche della linee, dei contorni dei piani che si incontrano e si incastrano.
Il paesaggio presente nelle sue opere è quindi un suo personale paesaggio, un paesaggio della memoria. Le immagini e i colori della Brianza, percorsa a piedi e in bicicletta, quelli della Toscana o delle Marche, visitati personalmente, si mescolano nella sua mente e compongono il suo immaginario.
Le linee dei contorni, le foglie, gli alberi, le strade, le alture, i fili d'erba sono miniere di segni. Il disegno tracciato a matita, con l'acrilico, con l'olio o con gli acquerelli, eseguito in un secondo momento in studio, rappresenta il luogo nel quale l'artista compone e ricompone ciò che ha osservato. Egli cerca innanzi tutto una scansione spaziale, una struttura nella quale e sulla quale si inseriscono i soggetti, i quali cancellano e nascondono in parte lo scheletro sottostante. Entro questo scheletro il segno indaga le forme ma più di tutto se stesso, nel suo configurarsi, nel suo susseguirsi, direzionarsi, aggrovigliarsi, sciogliersi.
"Amo pensare al paesaggio come memoria di segni, di tracce, di profili di architetture. Presento a volte il cielo incuneato nella terra, oppure il paesaggio come pelle che avvolge una struttura o addirittura che sta appeso."[2]
Il paesaggio non è propriamente descritto ma è evocato da allusioni. Racconta luoghi mentali più che fisici. Il suo sguardo non è più analitico, ma percettivo, intuitivo. Mantenendo sempre quella libertà espressiva del gesto, spontaneo e libero di percorrere la superficie, Triacca crea un suo personale inventario di figure e tracce, che, come frammenti, si inseriscono e trovano posto sulla superficie, acquistando significati che trascendono la mera descrizione dell'oggetto.
"In realtà la ricerca di Triacca, che parte da emozioni naturalistiche e immediate si carica di una tensione simbolica".[3]
Un volto, una conchiglia, una cavalletta fanno capolino nell'immagine ma risultano quasi trasfigurati e sembrano nel contempo alludere all'oggetto ma anche ad altre forme.
Il paesaggio di Triacca si avvicina in qualche modo alla pittura neofigurativa lombarda, quella ad esempio di Bellandi e di Forgioli. Si tratta di una pittura a soggetto figurativo, soggetto che viene scomposto, scardinato, quasi sviscerato dal segno e dal colore, perdendo il carattere di imitazione e assumendo forti impronte emotive.
Verso la metà degli anni settanta Triacca inizia a sperimentare nuove tecniche, oltre alla pittura ad olio e a quella acrilica su carta o tela. La serie legata a "Il segno racconta" viene declinata in una serie di lavori con i quali il pittore utilizza il segno pittorico su diversi supporti e con diversi materiali, ottenendo così con lo stesso linguaggio risultati differenti e sempre nuovi.
Triacca si confronta con la tecnica incisoria, che gli permette di sfruttare appieno tutte le qualità del segno; inoltre dal 1976 inizia a tradurre i disegni e i dipinti su carta e su carta intelata sulla tela con la pittura ad olio. Sperimenta anche una pittura fatta di un impasto dei gesso e colori stesi su tela juta. Infine affronta anche la tecnica dell'affresco, adattandola alle sue esigenze.
INCISIONI
Uno dei primi mezzi con i quali Triacca studia e affronta l'analisi dell'oggetto e del paesaggio attraverso il segno è la tecnica dell'incisione.
"L'esperienza dell'incisione ha rappresentato per me la scoperta e l'analisi del segno. Il segno è diventato in alcuni miei lavori il vettore dove organizzare e costruire la struttura compositiva. La prima e maggiore indagine progettuale e poetica dell'immagine".
Si tratta soprattutto di acqueforti e acquetinte.
[1] P. Klee, "Teoria della forma e della figurazione", vol.1, Feltrinelli, Milano, 1959, pag. 76
[2] A. Triacca, intervista di Miriam Polacco,in "Ai giovani consiglio di non prendersi sul serio", L'Esagono, 15 Marzo 1993.
[3] E. Pontiggia, "Dentro il paesaggio", presentazione in catalogo, galleria civica E. Mariani, Seregno, 1990
1975-1980 GLI STUDI SULLA TEORIA DELLA PERCEZIONE VISIVA
Triacca viene in contatto con le teorie della Gestalt e di Arnheim soprattutto grazie ad esperienze legate a corsi tenuti da insegnanti, come Di Salvatore e Garau, che frequenta nel 1975 per essere abilitato alla professione di docente. Ne rimane molto colpito. Le nuove scoperte in ambito visivo e...
Ne rimane molto colpito. Le nuove scoperte in ambito visivo e percettivo gli permettono di avere maggiore consapevolezza nella sua attività di pittore. Quello che prima poteva intuire attraverso l'istinto diviene ora un prezioso mezzo per creare uno scheletro strutturale alle suo opere, entro il quale inserire le forme e i contenuti con maggiore coscienza. Infatti conoscere e dominare le leggi percettive gli permette di lavorare con lo spazio e la configurazione secondo le sue precise intenzioni. Le forme prima inserite nei dipinti trovano ora una collocazione migliore, più pregnante, nella quale esprimono meglio la sua visione.



1971-1974 L'ENERGIA DELL'INFORMALE

Quando Triacca si affaccia sul mondo dell'arte, nei primi anni '70, il panorama risulta costituito dalle ultime speculazioni e dalle recenti ricerche, ancora in atto, degli artisti che operano nell'immediato dopoguerra. L'eco dei nuovi sviluppi, che proviene dalla storia dell'arte appena trascorsa, giunge anche in Italia e il pittore inizia a sentirne la risonanza nelle scuole d'arte. Molte delle esperienze compiute in quell'ambito, ma anche in quelle degli anni successivi, risentono del dibattito ancora in fermento sui nuovi mezzi dell'arte e sulle nuove intenzioni manifestate dagli artisti italiani, europei e d'oltroceano.
Nell'immediato dopoguerra la crisi del rapporto tra arte e società si fa sempre più sentire. L'uomo, e quindi l'artista, vive una crisi esistenziale a causa dell'abbandono della posizione centrale, assunta fino a prima della guerra, in favore di una sempre maggiore importanza conferita all'industria e al progresso, in crescita vertiginosa. La sfiducia nei confronti dell'umanità, anche alla luce della recente guerra, portano ad una condizione di disagio diffusa, molto sentita dagli artisti e riflessa nella loro arte. Un desiderio di rinnovamento è molto sentito, particolarmente nel rapporto con il mezzo pittorico: l'artista sente il bisogno di una libertà espressiva, di un gesto creativo senza costrizioni e vincoli, di un nuovo rapporto con i propri strumenti e materiali.Anche nell'ambiente delle scuole d'arte che Triacca frequenta il dibattito sull'arte è più che mai acceso. La crisi del ruolo del pittore e la voglia di rinnovamento si fanno sentire. Le nuove direzioni imboccate dalle manifestazioni artistiche vengono raggruppate sotto il termine "Informale".
I presupposti a questa tendenza, eterogenea nelle sue espressioni, vanno ricercati negli avvenimenti che susseguono gli anno della seconda guerra mondiale. In questa circostanza molti artisti europei si trovano a dover emigrare negli Stati Uniti: è così che il polo artistico che fino a quel tempo assumeva il ruolo di capitale dell'arte, Parigi, lascia il posto a New York. Molti personaggi che giungono nel nuovo continente sono artisti, critici e intellettuali che provengono da ambienti legati al dadaismo e al surrealismo, come Max Ernst, Andrè Breton, Juan Mirò, Marcel Duchamp. È da qui che prendono avvio le ricerche gestuali e segniche che affondano le proprie radici nell'automatismo surrealista e che caratterizzano l'arte americana in questo periodo.
Dopo la forzata separazione dovuta alla guerra vi fu una ripresa dei contatti internazionali, una crescente volontà di confronto tra realtà artistiche fino a quel momento rimaste estranee. Nel contesto italiano nasce la voglia di liberarsi dai dogmi formali e dalle eredità locali, condizioni ormai percepite come vincolanti.
L'uomo-artista si pone al centro della sua opera assumendo il ruolo principale. L'individualità e l'emozione soggettiva vengono poste in primo piano.
Gli artisti non si uniscono più sotto il nome delle avanguardie, semmai formano piccoli gruppi molto ristretti che manifestano una comunione di intenti, non tanto dal punto di vista formale, ma piuttosto in riferimento agli scopi da perseguire. Le manifestazioni artistiche sono quindi eterogenee. Il termine che è stato utilizzato per riunire diverse coniugazioni sotto uno stesso nome, ossia "Informale", è stato per la prima volta utilizzato dal pittore francese Mathieu nel 1951. Tuttavia fu il critico francese Michel Tapiè ad usarlo in modo consapevole, in occasione di alcune mostre alla galleria Drouin, che riunivano opere, tra gli altri, di Dubuffet e Fautrier. Nel suo significato letterale, "informale" vuol dire "senza forma". La parola viene quindi associata ad un'arte che non si avvale di forme compiute e definite. Questo non significa che si contrappone al figurativo: infatti la definizione di arte astratta non è calzante in quanto le sue espressioni non derivano da un processo di rielaborazione dell'immagine figurativa di un oggetto, fino a renderlo solo un insieme di linee e forme che da esso derivano. La linea e il segno sono essi stessi gli oggetti, che non rivelano altro che se stessi.
La cifra comune alle esperienze cosiddette "informali" può essere infatti individuata in un'arte in cui segno e gesto emergono in primo piano. Vi è una comune volontà di rinnovamento e cambiamento rispetto al passato e alla tradizione. Più di tutto è fortemente agognato un nuovo modo di porsi dell'artista rispetto al mezzo artistico, alla materia della propria arte. Gli elementi dell'opera vengono ad essere rappresentati dagli stessi mezzi del fare pittorico. L'opera cessa di avere un soggetto, o meglio il soggetto è lo stesso pittore con i suoi impulsi e le sue emozioni. Tuttavia questo non si può affermare per tutti gli artisti e per tutte le varianti del movimento di ogni paese.


Gli artisti d'oltreoceano vivono un momento di messa in crisi dei valori consolidati e appartenenti alla tradizione; anch'essi mettono in discussione il significato del dipingere e i suoi fini espressivi. Lo spazio pittorico è concepito come arena nella quale entrano in gioco non più solo i valori spaziali ma anche il tempo e il luogo dell'agire dell'artista. In ambito americano l'importanza conferita al gesto in sé è molto più estrema che in Europa. Gli artisti degli Stati Uniti sono soprattutto concentrati sull'azione in sé come momento rituale, magico. L'atto pittorico predomina in una dimensione quasi mistica, scandita dal tempo dell'azione, in una forma definita appunto action painting. Una delle principali differenze dell'informale nella sua declinazione europea in confronto a quella americana è una maggiore importanza conferita alla composizione e alla struttura, oltre che ad un gesto sì impulsivo ma direzionato e pilotato.
L'ambito dell'Informale in Europa si articola in diverse "poetiche". Tre elementi basilari della poetica dell'informale sono il segno, il gesto e la materia. La poetica del "segno" è alla base di una pittura che ha come protagonista unico e incontrastato il segno. Questo può essere una piccola scalfittura, un'impronta o una macchia amorfa più articolata. Può diventare trama, infittirsi o diradarsi, organizzarsi entro strutture o essere svincolata sulla tela. Può presentarsi come in sequenza o essere isolato in un groviglio, in una matassa. Il gesto che lo crea può scaturire da un gesto impulsivo, un movimento della mano istintivo di trascrizione automatica; a volte si presenta subordinato ad una struttura studiata nel dettaglio. Il segno diventa quindi vocabolo di un nuovo linguaggio che parla di se stesso, oppure allude all'essere umano e alla sua interiorità. Può essere volutamente simbolico, o evocare casualmente qualcosa che era imprevedibile dall'autore stesso. L'elemento grafico non delinea una forma, ma allude solo al suo formarsi e svilupparsi, non contiene un secondo significato. Le forme che eventualmente emergono sono determinate dal rapporto del segno con lo sfondo ma non conducono al riconoscimento di una configurazione specifica, seppur astratta. In alcuni artisti risulta evidente la componente calligrafica. Ne sono un esempio George Mathieu e Hans Hartung.
La poetica del "gesto" invece sposta l'attenzione al gesto vero e proprio e non tanto al suo prodotto sulla superficie pittorica. Questa è vista come luogo in cui la propria creatività si riversa, dove avviene un'azione guidata dalla volontà dell'artista. In questo senso, l'emozione più impulsiva diventa protagonista ed è il gesto a tradurla sul quadro. Il gesto è un'azione motoria, implica un movimento che per l'artista è dettato dall'impulso.
per questo motivo è una pittura caratterizzata da pennellate energiche, spazzolate di colore, sciabolate di materia pittorica. Alcuni artisti come Mathieu, in vere e proprie azioni eseguite anche in pubblico, arrivano a spremere il colore dal tubetto direttamente sulla tela. Su di essa si trovano quindi masse e agglomerati di colore, linee che tracciano percorsi di cui si può seguire la direzione, segni e forme organizzati in maniera casuale, macchie di colore, grumi e spruzzi. Il quadro registra esattamente il percorso creativo che l'artista mette in atto. È in questo senso che si ravvisano i suoi rapporti con l'automatismo psichico dei surrealisti.
L'action painting è una delle formulazioni più estreme di questa poetica. Si ricollega al cosiddetto Espressionismo Astratto americano, ma costituisce una variante più legata all'azione in sé.
La poetica della "materia" pone nella materia stessa l'oggetto della sua arte. Nell'artista che utilizza questo mezzo c'è la volontà di scoprire e far emergere l'energia propria della materia, le sue qualità intrinseche, e non desidera forgiarla o assoggettarla ad una forma. La materia è costituita da impasti di colore con cariche di diversa natura, da grumi e masse corpose di gesso e pigmenti, colle ma anche assemblaggi. Nel quadro vengono inseriti stoffe, sassi, sabbia o materiali inconsueti, come nel caso di Dubuffet, il quale crea composizioni con ali di farfalla. In questa sua natura la pittura materia ha un procedimento d'esecuzione più lento e meno istintivo. L'artista nell'apporre il magma materico si interessa ad un certo equilibrio formale, studia e sfrutta le caratteristiche di ogni sostanza e le qualità di texture.
lo strato applicato sul supporto è solitamente spesso e molto mosso. Il colore assume un ruolo fondamentale perché è l'unico elemento che può assumere forma, differenziare zone di materia e stesure di impasto.
In Italia la tendenza "informale"assume caratteri più forti verso la fine degli anni '40. Fontana, con il suo "Manifesto dello Spazialismo", rivendica una nuova spazialità, tesa a superare i contrasti tra arte figurativa e arte astratta, nella quale entrano a far parte colori, luce, forma e nuovi strumenti tecnici. L'obiettivo è quello di inaugurare un nuovo linguaggio nel quale l'arte assume significato soprattutto in funzione del gesto, dell'azione che, al contrario della materia, può essere eterna.
A Milano, il gruppo fautore di un manifesto si riunisce nel Movimento Arte Concreta (MAC), fondato nel 1951 e composto, tra gli altri, da Munari, Nigro e Soldati e supportato dal critico Gillo Dorfles.
In questo periodo emerge quindi una spinta ad un ritorno alla pittura, al colore e alla tela dipinta. Ma questa cessa di essere solo supporto per un'immagine: essa diventa invece un campo che registra i segni e i gesti immediati dell'artista, senza alcun filtro. Lo spazio è vissuto e sentito in modo nuovo: non si basa più su sistemi di rappresentazione fissi, ma su un'espressione libera di fluire.
Il nucleo del lavoro di molti artisti è costituito da una dialettica tra due elementi, che si sviluppa sulla tela.
Dalla declinazione orientale del movimento invece nasce un nuovo approccio ai materiali, spinto all'eccesso e spesso sconfinante in un'azione teatrale, in un evento che preannuncia gli happenings degli anni '60.
In conclusione, la poetica informale offre la possibilità a Triacca di creare immagini nuove; le nuove manifestazioni gli aprono l'orizzonte verso nuove concezioni di creatività e ad un diverso significato del dipingere. In esso prendono forma nuove tendenze che portano all'estremo la rivalutazione in termini di espressività libera e di gestualità legata al fare pittorico.
Per comprendere il suo rapporto con questa tendenza è utile osservare le opere eseguite in quel periodo, intorno cioè al 1970.